Inaugurazioni

sabato 30 maggio 2015

Era da tre giorni che messaggiavo i miei amici. Inaugurazione pizzeria a Povegliano! Dalle 11:00 alle 13:30! Cibo gratis!!
Sì sì, ero lanciatissimo, lo sono stato questa mattina all'inaugurazione. Arrivo alle 11:40, D. era già sul posto: "Non c'è rimasto più niente!" mi dice, "Cosa? Impossibile!", lancio la mia bici al muro e scandaglio i quattro tavoli. Solo qualche ciotola di patatine ormai vuota e le ultime anonime, laboriose dita che frugano le noccioline rimaste.
Non può essere finita così.
Riempio un bicchiere di bianco frizzante e profumato quasi fino all'orlo e A., col bicchiere servito a metà, analizza la verità: "Te lo sei versato tu vero?".
Cammino verso l'entrata della pizzeria zigzagando tra bambini confusi e genitori in fibrillazione, oltre l'alto bancone lancio il mio sguardo e vedo... vedo. Un delizioso tortino di tramezzini all'insalata russa, distese di bocconcini al prosciuto e pancetta su vassoi dorati, bottiglie di prosecco accompagnate da jeans e giacche lustre, palline di pasta infarinate come culetti di bimbi borotalcati.
Esco.
La strategia è fondamentale in eventi nei quali la massa dimentica di avere un obiettivo e punta al sodo, subito.
Capisco subito chi attorno a me è un esperto: un signore, durante il momento di attesa, fa spazio sul tavolo creando un piano d'appoggio veloce per i camerieri con i loro vassoi, e da dietro i suoi baffi attende. Altri sono più discreti, escono studiando attentamente gli angoli di entrata negli spiragli lasciati dal pubblico e tac, già due pezzi in meno sul vassoio, così, senza che ne nessuno se ne sia accorto.
La mia tattica invece è molto più semplice: per un po' mettere da parte la dignità e piazzarsi davanti a uno dei tavoli, non il più vicino, non il più lontano, e non spostarsi. Mai. Qualsiasi cosa accada.
Questa fermezza d'intenti rende possibile l'osservazione di fenomeni ricorrenti: signore dagli appetiti voraci e dalla scaltrezza indicibile, anziani che ti chiedi perché abbiano il bastone, bambini che riempiono i bicchieri di pasticcini anche e soprattutto se non ce ne stanno più, atti discutibili da parte di adulti rispettabili: "T'onti sbrofà?" mi chiede il signore dell'inizio da sotto i suoi baffi umidi, dopo aver buttato il fondo del bicchiere sotto il tavolo e avermi schizzato lo stinco.
Le voci di quel luogo mi ronzano ancora in testa e tormentano il mio sonno. "Le persone sono come cavallette", "Prima o poi i narà ia un pochi", "Sono s'gionfo"; le cameriere avevano espressioni infernali nel sentirsi deflorare i vassoi solo dopo pochi passi fuori dell'uscio: come fossero piccoli passeri che non riescono a volare via dal nido.
Ma amici miei, queste sono le inaugurazioni qui da noi. La storia è questa. Esistono equazioni elementari che ognuno di noi conosce, tanto che incontrandosi per strada è facile intuire dove si stia andando; una di queste è: inaugurazione=cibo gratis. In matematica si chiama tautologia, non dico niente di nuovo. E' una peculiarità culturale trasversale alle generazioni, è una sfumatura del concetto di ignoranza 2.0 che così tanto oggi va di moda, ma che da sempre risulta essere la manifestazione più sincera dell'assenza di pensiero. Attraverso l'esosità di questi riti si assaggia, ogni tanto, un goccio di purezza.
Dedico queste parole alla voracità.

Quando che hai...

mercoledì 15 aprile 2015

Non so voi, raga, ma io non appena sento parlare di "sogni" in tv, in giro, nei giornali ecc... mi scazzo. Perché sono robe inflazionate, hanno carattere etereo, sono difficilmente inquadrabili, poco pratiche, difficili da concepire e molto soggettive.
Sono anche l'argomento di Feeding Memory di quest'anno. E già dalle prime interviste capisco una cosa, cioè che è molto più interessante ciò che è legato alla riflessione sui sogni da parte delle persone che li fanno, piuttosto che i sogni stessi.
Ieri abbiamo intervistato Luigi. Non ha portato racconti di sogni grandiosi, lui non si è mai sentito qualcuno che doveva realizzare qualcosa di grande, anzi, era sconvolgente la curiosità che sapeva esprimere raccontando di sé, dei suoi limiti; così leggeri erano i sorrisi che avevamo capendo che per lui non c'era senso nel mostrarsi diverso da com'è, sia quando con emozione rifletteva sulla domanda appena posta, sia quando esponeva le proprie idee e convinzioni.
Non so bene descriverlo, ma in un momento preciso ho percepito tutta la densità, la stratificazione e la posatezza della nostra cultura, che si traduce in modi e in parole; quel momento è stato quello nel quale Luigi ha iniziato una frase dicendo "Quando che hai...", un'espressione tipica delle nostre parti, tramandata senza volontà e che ho cucita dentro dalle voci dei miei nonni. E così, come còlto intento a guardare da altre parti, grazie a quelle semplici parole, ho sentito il tutto diventare ancora più intimo, più familiare.